In 'Posizione dell’inconscio' Lacan sviluppa le due operazioni di causazione del soggetto che sono alienazione e separazione. Con alienazione-separazione inizia anche una virata della clinica lacaniana dal paradigma linguistico al paradigma logico matematico.
Il fatto stesso che si parli di causazione del soggetto implica un presupposto: che l’Altro sia già presente. Il soggetto è generato a partire dall’Altro. È il motivo per cui quando, nel 1980, fu pubblicato il libro dei Lefort Naissance de l’Autre, Miller non fu molto soddisfatto del titolo, e disse che era stato voluto dall’editore, non dagli autori. In effetti l’assiomatica di Lacan degli anni Sessanta presuppone un Altro già presente, un Altro che è il punto di partenza, è dato, mentre il soggetto ne deriva inscrivendovisi prima e facendosi rappresentare, e poi separandosene. Se ci spostiamo nell’ultimo insegnamento di Lacan l’assiomatica è completamente diversa: quel che è dato di partenza è un godimento e l’interrogativo è cosa fa si che il soggetto si apra al desiderio, cioè a una relazione con l’Altro. All’inizio degli anni Ottanta, quando Miller studiava nei suoi corsi le due operazioni di alienazione e di separazione, questa assiomatica dell’ultimo Lacan non era ancora stata esplorata. Oggi dobbiamo parlare della seconda operazione di causazione del soggetto presentata in Posizione dell’inconscio che è, come abbiamo detto, la separazione e ci collochiamo entro la prima assiomatica, quella dell’Altro presupposto.
In Posizione dell’inconscio all’operazione di separazione sono dedicate poche pagine, e anche nel Seminario XI, dove è ripresa, è toccata solo per brevi accenni. Si tratta però di un’operazione fondamentale, e ne troviamo il primo modello nel seminario sull’angoscia, quando Lacan parla della cessione dell’oggetto. Si tratta di un momento di pericolo, di cui l’angoscia è il segnale, è un momento di incontro con l’Altro, dove l’oggetto, il seno, che Lacan considera come parte del corpo del bambino in quella fase, è strappato da sé e ceduto all’Altro. Possiamo dire che si tratta di un momento di angoscia inaugurale, un momento nel quale il soggetto, per esistere, deve cedere, deve espellere qualcosa.
L’interessante, in questo concetto di cessione, è che sia il bambino a separarsi, senza necessità dell’intervento di un agente separatore. Non entra in gioco qui il Nome del Padre, come nella metafora paterna, dove la funzione paterna è per l’appunto quella di separare il bambino dalla madre disidentificandolo dal fallo. Dal tema della metafora paterna deriva tutto il tema che Lacan sviluppa nel Seminario VI su Amleto, dove il punto di partenza è il famoso dilemma del principe di Danimarca: “Essere o non essere?”. Ma, aggiunge Lacan, cosa si tratta di essere o non essere? Sui presupposti del seminario V e della metafora paterna, la questione diventa essere o non essere il fallo della madre, dove il padre interviene come agente separatore.
Le operazioni di alienazione e separazione, tenendo conto della nuova elaborazione sull’angoscia, spostano dunque la struttura soggettiva dall’impianto legato alla metafora e metonimia, dove è necessario il Nome del Padre, a un nuovo terreno dove è il soggetto stesso l’attore delle operazioni. È questo il motivo per cui nei suoi corsi dei primi anni Ottanta Miller ha dedicato molto spazio all’articolazione di queste due operazioni. Il complesso alienazione-separazione sposta la prospettiva clinica dal panorama incentrato su metafora e metonimia, crea un altra prospettiva per la clinica, a partire dalla quale sono poste le basi dell’al di là dell’Edipo. Ci muoviamo infatti in un ambiente concettuale in cui già possiamo lasciare sullo sfondo il Nome del Padre.
Con alienazione-separazione inizia anche una virata della clinica lacaniana dal paradigma linguistico al paradigma logico matematico. In effetti sono due operazioni logiche quelle sottostanti alle operazioni di alienazione e separazione, e sono l’unione e l’intersezione. A partire dagli anni Sessanta, infatti, Lacan comincia sempre più ad attingere alla matematica, in particolare alla topologia e sposta il terreno della clinica psicoanalitica dai meccanismi della linguistica assunti da Saussure e da Jakobson, a quelli della logica formale e della matematica. Questo passaggio a concetti rigorosi della logica fu particolarmente applaudita da Althusser, a partire dall’idea che finalmente Lacan dava al pensiero di Freud i concetti scientifici ad esso necessari. Bisogna considerare che Althusser appartiene a pieno titolo alla corrente strutturalista del pensiero francese, una corrente che persegue un ideale di rigore, nelle scienze umane, analogo a quello del discorso scientifico.
Pur perseguendo anch’egli questo stesso ideale di rigore, negli anni di Posizione dell’inconscio e del Seminario XI Lacan non è più tanto saldamente convinto che la psicoanalisi debba appartenere al campo delle scienze, e nel Seminario XI la domanda sulla pertinenza della scienza per la psicoanalisi ogni tanto emerge. La risposta verrà qualche anno più tardi, e noi sappiamo oggi che la psicoanalisi ha un rigore epistemologico diverso da quello della scienza, e che non deve inseguirne il modello. Questa differenza si vede anche dal modo in cui sono utilizzate la matematica e la logica nella psicoanalisi, un modo molto diverso da quello in cui viene utilizzata nel discorso scientifico.
Su questa differenza c’è stato chi ha sollevato importanti obiezioni e forti critiche. Mi riferisco alla feroce polemica nata dalle “beffa Sokal” e dal libro successivamente pubblicato con il titolo “Imposture intellettuali”. Si tratta di un libro di vent’anni fa, pubblicato nel 1997, che ha dato luogo a una durissima polemica. Si tratta di un attacco a tutto un settore dell’intellighenzia francese, da Deleuze a Lacan, a Julia Kristeva, a Bruno Latour, accusati di aver utilizzato concetti scientifici senza avere le competenze necessarie.
Le obiezioni sollevate dai due studiosi riguardano in primo luogo l’imprecisione e la superficialità che questi pensatori mostrerebbero nell’uso dei concetti matematici. Questa, francamente, mi sembra un’obiezione secondaria e non particolarmente significativa. Anche gli scienziati sono spesso imprecisi quando utilizzano concetti filosofici, imprecisi o poco profondi, ma non è questo il problema. Basti pensare al dibattito che ci fu tra Einstein e Bergson quando lo scienziato tedesco formulò la teoria della relatività che riduceva il tempo a quarta dimensione dello spazio. Bergson non poteva essere d’accordo su questa interpretazione del tempo, e la polemica non riguardava la fondatezza o meno della teoria della relatività, o i calcoli su cui era basata, ma l’interpretazione filosofica del tempo che se ne traeva. E l’idea di Bergson era che, sul piano puramente filosofico, fosse un’interpretazione abusiva, perché non si può porre un tempo senza una coscienza, e se nella prospettiva di Einstein si parla di un tempo impersonale, si deve allora presupporre una coscienza universale. Il rilievo di Bergson non riguarda quindi i calcoli su cui è edificata la teoria della relatività, ma la valenza metafisica che questa assume ponendosi come una teoria generale, nel passaggio dal calcolo al senso.
Trovo quindi che l’obiezione di Sokal e Bricmont relativa alla competenza sia marginale. Più interessante è quella che riguarda l’uso della matematica fatto nel pensiero che i due autori definiscono postmoderno in un campo che non è quello delle scienze esatte. La critica consiste nell’affermare che il modo in cui la matematica viene usata manca di una base empirica, e risulta quindi vuota di senso perché non rimanda a nessun referente oggettivo. Questo è un punto di dissenso significativo che va preso sul serio, perché in realtà è vero che l’uso della matematica in Lacan e negli altri pensatori non si applica a una base empirica. Qui vediamo però apparire anche il presupposto di fondo del ragionamento di Sokal e Bricmont: il solo uso legittimo della matematica è un uso referenziale, che rimanda a elementi empirici osservabili, come in effetti accade nell’uso della matematica che si fa nella scienza.
Bisogna dire che nella scienza contemporanea a partire dalla meccanica quantistica, il referente empirico dei fenomeni matematizzati è stato sempre più problematico. Un interessante libro di Jim Baggott intitolato Addio alla realtà descrive il progressivo distacco della fisica contemporanea da ogni riscontro empirico. Teorie come quella degli universi paralleli o come la teoria delle stringhe sono formulate su esclusiva base di calcolo, senza riscontri d’osservazione. Anche la teoria dei loop di Carlo Rovelli, che appare una delle aree più promettenti della fisica contemporanea, è attualmente priva di riscontri empirici. Tutta la fisica contemporanea d’altra parte si allontana dalle possibilità dell’intuizione. Il famoso salto quantistico per esempio, per cui una particella si trova a passare da un’orbita all’altra in modo discontinuo, senza gradualità, non è immediatamente concepibile se ci riferiamo alla figura macroscopica dell’atomo che siamo abituati ad avere in mente, con un nucleo e le orbite disegnate intorno. Ci sembra debba esserci una certa gradualità, un tragitto fatto di posizioni successive e continue che portano da un’orbita all’altra. Così l’esperimento della doppia fenditura attraverso cui facciamo passare delle particelle corpuscolari, e sullo schermo di rilevamenti invece di ottenere uno schema lineare come quello previsto nel passaggio di un corpuscolo otteniamo uno schema a strisce simile a quello lasciato dal passaggio di un’onda. Il fatto è che noi possiamo visualizzare particelle subatomiche con il nostro immaginario macroscopico, che è fatto per altri scopi, è fatto per soddisfare la pulsione, per entrare in relazioni speculari d’amore e d’odio, per vedere le prede, ma non per entrare in relazione con le particelle subatomiche. Affermare che la fisica contemporanea si allontana dall’intuizione non è dunque una notazione critica ma una constatazione, e serve solo per allargare il nostro campo d’osservazione, perché la fisica ha incontrato oggetti che non sono raggiungibili con i mezzi della sensibilità umana, e non potremo misurare oggetti microscopici con strumenti macroscopici, come non potremo vedere un fotone al microscopio, per quanto potente questo sia. In fondo le teorie menzionate, quella degli universi paralleli, quella delle stringhe, quella dei loops, sono problematiche proprio in quanto prive di base empirica, e la prospettiva scientifica richiede necessariamente un riscontro osservativo affinché le teorie non vadano alla deriva in una sorta di metafisica matematica che può essere molto divertente, ma che serve solo a nutrire i romanzi di fantascienza.
Nella scienza la matematica descrive la realtà, disegna traiettorie, orbite di pianeti, posizioni di particelle atomiche. Si tratta di delineare movimenti di corpi, stati della materia nello spazio e nel tempo. Ed è proprio il carattere referenziale della scienza a permettere di intervenire sulla realtà, di modificarla con la potenza che l’evoluzione della tecnologia ci ha mostrato, soprattutto oggi che viviamo nel mezzo di una straordinaria rivoluzione tecnologica come quella digitale. Proprio per via di questo carattere referenziale possiamo dire che nelle scienze la matematica si applica alla realtà. Ora: l’uso che facciamo della matematica in psicoanalisi è tutto fuor che applicativo, e lo vedremo proprio studiando le formule soggiacenti al problema della separazione.
La matematica è applicabile se c’è un oggetto a cui applicarla, se noi siamo esterni al campo di applicazione, e proiettiamo le formule in una realtà che ci sta di fronte. L’uso che fa Lacan della matematica concerne invece le strutture soggettive, non si rivolge qualcosa che ci sta di fronte, ma riguarda quel che noi siamo. La matematica in questo caso non è applicabile perché non si riferisce alla realtà dinnanzi a noi, ma al reale che ci riguarda, che ci tocca, che ci assilla, che incombe su e dentro di noi. Significativamente, man mano che Lacan entra nel paradigma logico-matematico, nella sua elaborazione prende sempre più spazio il reale a scapito del simbolico e delle strutture linguistiche.
Se l’uso che Lacan fa della matematica non è applicativo né referenziale, allora che tipo di uso è? Come entra la matematica nella panoplia della psicoanalisi? Senza girarci tanto intorno direi che l’uso che Lacan fa della matematica è lo stesso uso che la psicoanalisi fa dell’arte. Non applichiamo i concetti psicoanalitici all’arte per decifrare l’opera, ma entriamo piuttosto nella logica dell’opera per capire come funziona l’inconscio. Uno degli esempi migliori è lo studio dell’Amleto di Lacan, di cui abbiamo parlato qui due anni fa. Non è la rappresentazione dell’Amleto o i suoi simboli che sono in gioco, ma le relazioni che ci mostra il fatto che il testo dell’Amleto sia quel che più di ogni altro mette in risonanza il nostro inconscio. Prendiamo, altro esempio, il lavoro che Lacan fa su Joyce. Mi è sembrato molto espressivo Miller quando nel suo corso sul seminario XXIII ha detto, a un certo punto, che Lacan lascia la mano di Freud e prende quella di Joyce. Lacan si fa portare per mano, come da una guida, prima da Freud e poi da Joyce. Non ha un corpo concettuale con cui traversarne il testo, ma vi entra per trarne una logica che serve da orientamento nella clinica. Ebbene, per la matematica è lo stesso. Non la usa per rendere operativi i concetti analitici nella pratica, ma ne estrae determinate relazioni che illuminano e orientano la pratica. Possiamo dire che Lacan tratta il testo matematico come tratta il testo artistico.
Quando prende un testo letterario non fa il critico d’arte, e quando prende un testo matematico non mima lo scienziato, ma estrae reti di relazioni atte a chiarire il funzionamento dell’inconscio.
Nella causazione del soggetto attraverso l’alienazione e la separazione vediamo in modo assolutamente esplicito questo modo di funzionamento rivelarsi attraverso la logica delle operazioni matematiche soggiacenti di unione e si intersezione. Non sono infatti operazioni che rispecchiano e modellizzano stati di realtà a loro preesistenti, ma illustrano il soggetto nella sua intima natura, nelle sue relazioni costitutive. Nello stesso modo, quando Lacan insiste a dire che il toro non è un modello del soggetto ma il soggetto stesso, non dobbiamo scivolare verso la china immaginaria che ci fa pensare al soggetto come a una ciambella con il suo buco, ma considerare le relazioni che questa figura esprime. Il rapporto tra il toro e il soggetto non è quello della mappa con il territorio, perché, in un certo senso il toro è il territorio stesso, con tutte le sue conformazioni, le sue asperità, i suoi punti di passaggio. La topologia di Lacan è un modo di mettere in luce relazioni che sfuggono alla presa dell’immaginario, e che il simbolico esprime solo parzialmente. Dopo l’esplorazione dell’immaginario con lo stadio dello specchio, e il grande sviluppo del simbolico con la linguistica, la matematica segna per Lacan il tempo del reale.
Conferenza tenuta a Madrid il 22 aprile 2017 presso la Escuela lacaniana de psicoanalisis