Il "Seminario XI" articola su due piani un aspetto critico nello sviluppo dell’insegnamento di Lacan. Il primo piano è quello politico, giacché il 1964, anno in cui si svolge il seminario, è anche l’anno della scomunica da parte dell’IPA, della rottura del legame che porterà Lacan alla fondazione dell’EFP.
Questo evento lascia, evidentemente, una traccia nei concetti che Lacan sta elaborando, sia per quanto riguarda la definizione di cosa sia un collettivo analitico, sia relativamente alla nozione di traslazione, nozione centrale nei due capitoli che commentiamo oggi.
Il secondo piano riguarda la riflessione epistemologica sul rapporto tra psicologia e scienza. Nei primi anni del suo insegnamento Lacan si è sforzato di costruire concetti che rispecchiassero il rigore delle scienze positive. Mentre nel mondo anglosassone si tentava di adeguare i concetti psicoanalitici all’epistemologia positivista delle scienze naturali - e questo era, bisogna dire, anche l’auspicio di Freud - Lacan batteva una strada diversa, costeggiando il movimento strutturalista che, nel campo delle scienze umane, cercava il rigore prendendo come modello la formalizzazione della linguistica realizzata da Ferdinand de Saussure. Si tratta naturalmente di un modello che implica a un rigore diverso da quello prescritto dalla fisica, e che parte dalla messa in formula del segno come rapporto tra significante e significato. L’idea che l’inconscio sia strutturato come un linguaggio ha questa premessa, e procede dall’assunzione dell’algoritmo saussuriano come legge fondamentale del funzionamento del linguaggio. Da qui deriva poi la valorizzazione dei due grandi assi della metafora e della metonimia, ripresi da Jakobson, che costituiscono la prima armatura formale dell’inconscio, e apportano l’impalcatura strutturale attraverso la quale Lacan, nei primi anni del suo insegnamento, rilegge i fenomeni della clinica freudiana. Lacan è però sempre consapevole di un aspetto, che mette in luce, sin dai primissimi seminari e che costituisce anche la sua critica alla prospettiva messa in campo dalla psichiatria: la psicoanalisi non prende il paziente come oggetto di osservazione, la psicoanalisi ha a che fare piuttosto con un soggetto e con l’esperienza soggettiva. Naturalmente questo crea un problema: l’inconscio strutturato come un linguaggio si formula in leggi che si improntano al rigore oggettivo delle scienze naturali, mentre il soggetto, da sempre nella tradizione occidentale, è il soggetto della coscienza. Il problema del soggetto si pone dunque per Lacan a partire dall’impostazione strutturalista e dell’inconscio strutturato come un linguaggio. Nell’impostazione strutturalista, con la sua prospettiva oggettivante, non c’è posto infatti per il soggetto, e la questione per Lacan sarà, nei primi anni, in primo luogo di trovare un’articolazione tra l’inconscio e il soggetto, in secondo luogo di formulare il soggetto non come soggetto della coscienza, ma come soggetto dell’inconscio. L’espressione soggetto dell’inconscio è infatti un’espressione peculiarmente di Lacan, che non trova riscontro in Freud. Lacan ne è perfettamente consapevole, e lo ribadisce nelle lezioni che commentiamo oggi. A p.127 dell’edizione francese dice infatti: “Cogliete perché la relazione del soggetto con il significante è il punto di riferimento che abbiamo voluto mettere in primo piano in una rettifica generale della teoria analitica, poiché esso è primario o costituente nell’instaurazione dell’esperienza analitica, tanto quanto è primario e costituente nella funzione radicale dell’inconscio.” Lacan, nel corso dei seminari degli anni ’50, procede in diversi modi ad articolare il soggetto con la struttura dell’inconscio, cioè del linguaggio. Una delle formule più famose è che il significante rappresenta un soggetto per un altro significante. È una definizione che esprime l’idea del soggetto diviso. Il soggetto accede all’Altro solo facendosi rappresentare, e nel momento in cui vi è rappresentato, sparisce tuttavia come forma viva e può solo articolarsi con un altro significante dando luogo alla concatenazione di S1, S2. Chiaramente questa definizione del soggetto inconscio esprime quel che nel Seminario XI Lacan chiama alienazione, ovvero l’annullarsi del soggetto vivente sotto la marca che lo rappresenta nell’Altro. Per questo proprio nel Seminario XI Lacan sente la necessità di completare quel che chiama la “causazione del soggetto” con un’altra operazione che è quella di separazione, cioè un’operazione con cui il soggetto si stacca, come “a”, dalla catena significante. Nel Seminario XI Lacan rivisita completamente la problematica del soggetto dell’inconscio, facendolo passare attraverso una lettura del cogito cartesiano che, come lo definisce in Posizione dell’inconscio - è un momento privilegiato, ma il cui privilegio non è estensibile - dice - ai fenomeni della coscienza. Lo sforzo delle battute iniziali di Posizione dell’inconscio sarà infatti di dare un corpo concettuale all’inconscio in modo indipendente dal fenomeno della coscienza, di forgiarne un concetto che non sia derivato dalla coscienza come suo negativo. Posizione dell’inconscio inizia definendo innanzitutto quello che l’inconscio non è, e soprattutto non è il negativo della coscienza. Questo porterà Lacan, più avanti, a ripudiare il termine stesso “inconscio” e a forgiare al suo posto il neologismo “parletre”. Nel Seminario XI tuttavia la posizione privilegiata del cogito definisce il soggetto dell’inconscio, e bisogna dire che in questo seminario c’è un radicale rimescolamento dei concetti formulati da Lacan negli anni Cinquanta, sia per quanto riguarda l’inconscio, sia per quanto riguarda il soggetto. Sin dall’inizio l’inconscio non è più pensato solo come strutturato come un linguaggio, ma come pulsazione, come battito di apertura e chiusura, e come in relazione al corpo. Scrive infatti a p.852 degli Ecrits“L’importante è cogliere come l’organismo vient à se prendre dans la dialectique du sujet”. Nell’espressione “vient à se prendre” c’è l’idea di impigliarsi, di inciampare. Quello che prima era il funzionamento puramente formale, logico, lineare dell’inconscio, si impiglia ora nell’organismo. Vediamo in un certo senso che l’organismo risulta disfunzionale rispetto alla logica dell’inconscio, lo inceppa, lo porta alla chiusura, ed è in fondo quel che ci mostra con lo schema della nassa presentato proprio in queste lezioni. È interessante notare che questa temporalità dell’inconscio, fatta di pulsazione, corrisponde alla nuova formulazione del soggetto in base alle operazioni di causazione del soggetto, cioè alienazione e separazione. L’alienazione segna un tempo di apertura, riguarda il dispiegarsi della catena significante, mentre la separazione è relativa alla chiusura, ed è sul piano pulsionale. Ma vediamo come in queste lezioni Lacan sviluppa la tematica del cogito. Il modello su cui lo riformula è quello del paradosso del mentitore, dove l’affermazione: “Io mento” immette in un circolo vizioso: sto mentendo o sto dicendo la verità? Sul piano logico dell’enunciato la questione è insolubile, perché l’enunciato è autoreferenziale, non dice che io mento su qualcosa di determinato, dice di sé che è menzognero. Lacan vuole smontare questo paradosso, e per farlo deve spostarsi dal semplice piano degli enunciati e mettere in gioco il piano dell’enunciazione. Prende allora, per illustrarlo, la famosa storia freudiana di Lemberg e Cracovia, dove l’intenzione di mentire appare chiara: “Perché mi dici che vai a Lemberg per farmi credere che vai a Cracovia mentre vai proprio a Lemberg?” Per risolvere l’impasse logica sul piano dell’enunciato “Io mento”, Lacan, usando gli schemi del suo grafo, divide il piano dell’enunciato dal piano dell’enunciazione. Distribuisce quindi gli elementi della frase “Io mento” tra enunciato ed enunciazione. “Mento” resta sul piano dell’enunciato, come significante che fa parte dell’Altro, che fa parte del tesoro del significante, del vocabolario, mentre “Io” risulta essere una significazione che si produce sul piano dell’enunciazione. Quando quindi pronunciamo “mento” come enunciato, si produce, come effetto di enunciazione “io ti inganno”, che è quel che risulta nella storiella Lemberg e di Cracovia.
È a partire da questo che Lacan riprende la sua formula secondo cui il soggetto riceve il proprio messaggio dall’alto in forma invertita, applicandolo alla relazione analitica. Come funziona in questo caso? Quando il paziente si preoccupa di dire o di tralasciare alcune cose perché potrebbero mettere lo psicoanalista fuori strada, proprio allora sta dicendo la verità e, sostiene Lacan, l"’Io ti inganno" proviene dal punto in cui lo psicoanalista attende il soggetto e gli rinvia, secondo la formula, il suo messaggio nel suo significato vero e proprio, vale a dire in forma invertita”. Lo psicoanalista rimanda al paziente: in questo “Ti inganno” il messaggio che mi invii è quello che ora ti esprimo, e in questo modo dici la verità. Nel cammino di inganno in cui il soggetto si avventura, lo psicoanalista è nella posizione in cui può formulare: “Tu dici la verità”, e l’interpretazione psicoanalitica ha senso solo in questa dimensione. È questo lo schema attraverso cui Lacan rilegge il cogito cartesiano. “Io penso” infatti, suggerisce Lacan, è un enunciato minimo, puntiforme, analogo a “Io mento”, è un enunciato che non vuole dire niente, perché non è “mento su qualcosa”, e nella sua astrazione è autoreferenziale. Così “Io penso” non è “io penso a qualcosa”, ma penso nella pura astrazione. Anche l’ “Io penso” nasce dal dubbio, dal dubbio di essere ingannati dai sensi, dal dubbio che tutte le rappresentazioni del mio pensiero siano ingannevoli. Ma “Io penso” esce da questo campo delle rappresentazioni proprio perché non è pensiero di qualcosa, è: penso il fatto stesso di stare pensando, e quindi è autoreferenziale, come “Io mento”. Si separano quindi il “cogitans” dell’”ego cogitans” dall’”ego”. Il “cogitans” resta sul piano degli enunciati, mentre l’”ego” scivola sul piano dell’enunciazione, producendo la certezza del cogito. La certezza è un effetto dello scivolamento di piano tra enunciato ed enunciazione. Occorre ora osservare qui alcune particolari distinzioni: quando Lacan riprende il soggetto cartesiano del cogito come soggetto dell’inconscio, precisa che la dimensione venuta in luce con l’inconscio freudiano è quella che dà al soggetto lo statuto di soggetto del desiderio. La certezza è la certezza del desiderio di cui troviamo le risonanze nell’espressione di Lacan “desiderio deciso”, e che nell’etica dà la rotta quando si tratta di non cedere sul proprio desiderio. La via del desiderio deciso è quella che il nevrotico smarrisce, perché non sa cosa vuole, perché vuole e non vuole la stessa cosa, come l’ossessivo, o perché vuole e poi si sottrae, come l’isterica. Il modello paradigmatico che Lacan dà di come il nevrotico perda la strada del proprio desiderio è nello straordinario commento dell’Amleto, dove mostra che tutte le incertezze del principe di Danimarca, tutto il suo essere o non essere sono, in ultima istanza, essere o non essere il fallo, e troverà la via del desiderio solo con la perdita dell’oggetto Ofelia, nella scena del cimitero quando si azzuffa con Laerte. Poiché il soggetto dell’inconscio è il soggetto del desiderio, Lacan assegna per contrasto al cogito cartesiano la funzione di aborto o di omuncolo. Questa seconda denominazione si capisce, e ha una tradizione. In un certo senso la sintesi dell’autocoscienza è la traduzione moderna dell’homunculus, e dopo Cartesio, ma non per colpa sua, questo termine ha acquisito il senso di res cogitans come omino dentro la testa che guida i processi cognitivi. Incontriamo infatti in questo l’argomento tradizionale che ha nutrito un dualismo semplificativo: se il corpo è la res extensa, la res cogitans è l’omino dentro la testa che fa da cocchiere al corpo, guidandolo e, poiché il corpo cartesiano è una macchina biologica, dandogli intenzione e volontà. Il primo ad affrontare criticamente questa forma di dualismo è stato Gilbert Ryle, che per smontare il mito di Cartesio ha scritto quello che è diventato uno dei suoi libri più conosciuti: The Ghost in the Machine. Lacan non si riferisce esplicitamente a Ryle, ma riprende la sua critica: un homunculus che guida l’uomo, deve avere a sua volta un homunculus nella testa e così via, in un regresso all’infinito. Come situare, invece, il termine aborto? L’aborto è un rigetto, un resto, e certamente un resto entra in gioco nella produzione del soggetto. È ciò che fa da controparte a quel che Lacan sigla come $, è l’oggetto a. In questa lezione Lacan tiene particolarmente a distinguere questi due elementi. “Guardatevi, dice, dal sovrapporre la funzione di $ con l’immagine dell’oggetto a”. Da una parte infatti c’è la funzione significante. C’è un primo significante a partire dal quale il soggetto si orienta ̶ che si segna come un tatuaggio ̶ ed è il tratto unario, primo dei significanti. Dall’altra c’è l’oggetto a, cioè il residuo che non entra nella funzione significante, ma che si reperisce a partire dal significante. Dice infatti Lacan “Nella pratica analitica reperire il soggetto rispetto alla realtà, così come si suppone che essa ci costituisca, e non rispetto al significante, vuol dire cadere nel degrado della costituzione psicologica del soggetto.” Il passaggio si trova a p.130. Direi che in questo passaggio Lacan situa con esattezza l’asse su cui pone l’analisi e la differenza rispetto all’impronta positivista della psicoanalisi anglosassone da cui vuole prendere le distanze. Chi infatti vuole reperire il soggetto rispetto alla realtà se non la psicoanalisi anglosassone di quegli anni, di cui Lacan riporta alcuni esempi proprio in queste lezioni. Valga per tutti quello di Thomas Szasz, autore peraltro interessante che ha saputo decostruire il mito della malattia mentale, ma che lo ha fatto proprio partendo da una premessa positivista: la malattia mentale non esiste. Se distinguiamo quel che è la malattia mentale da quel che è la malattia del cervello ̶ cioè un disturbo organico –̶ la malattia mentale scompare perché si riduce a deviazioni da comportamenti della norma, e quindi a problemi che riguardano il campo giuridico o etico. Il concetto di malattia mentale ha semplicemente la funzione di deviare verso il campo medico un problema di tipo etico-giuridico. Si tratta di una critica positivista perché si disfa di un concetto per il motivo che non ha un referente nella realtà materiale. Nell’articolo studiato da Lacan The concept of Tranference as a Defence for the Analyst, pubblicato nell’International Journal of Psychoanalysis nel 1963, Szasz considera per l’appunto la traslazione come un modo che ha lo psicoanalista di difendersi, ma da cosa? Dall’impatto della personalità del paziente. Quello di traslazione è un concetto collaterale, anche se indispensabile - dice Szasz - che contiene però i germi non solo della propria distruzione, ma della distruzione della psicoanalisi stessa, perché tende a mettere la persona dello psicoanalista al di là della prova di realtà che può avere dai pazienti, dai colleghi o da se stesso. Szasz prende infatti l’esempio di Breuer e di Anna O. Prima di Breuer i sintomi delle pazienti isteriche erano assunti nel loro senso apparente e il medico tentava di rinforzare le pazienti nella loro nevrastenia. Breuer comincia invece a decifrare i sintomi del linguaggio corporeo traducendolo nel linguaggio comune. Ben presto però Breuer si accorge che decifrare i sintomi delle pazienti non è la stessa cosa che decifrare i geroglifici egiziani, e che se il marmo delle tavolette dei geroglifici non era minimamente turbato dallo sforzo di decifrazione dell’egittologo, le pazienti isteriche reagivano invece diversamente. Motivo per cui Breuer si trova coinvolto in una relazione con Anna O. senza la protezione che veniva prima fornita dall’aspetto sintomatico. La difesa offerta dai sintomi non serviva infatti solo alla paziente, ma anche al medico, perché mentre la paziente era inconsapevole della carica aggressiva ed erotica dei sintomi, non poteva disturbare con questo il medico. Una volta tolta però l’inibizione, realizzata cioè la relazione di traslazione, il medico non si trovava più di fronte a una povera paziente resa disabile dai sintomi, ma di fronte a una donna attraente e sessualmente eccitata. Sappiamo come reagì Breuer: dandosi alla fuga. Sappiamo come invece reagì Freud: leggendo come controtraslazione la reazione di Breuer, e dando alla traslazione un valore simbolico, un valore di sostituzione anziché prenderlo come reale. Szasz considera che il rischio implicito nella relazione di traslazione debba essere riconosciuto chiaramente e che né la professionalizzazione, né l’innalzamento degli standard, né le analisi didattiche spinte a fondo possano proteggere da tale pericolo, e che solo l’integrità dello psicoanalista e della situazione psicoanalitica possano salvarci dall’estinzione del dialogo tra l’analista e l’analizzato. Lacan critica proprio questo punto di vista di Szasz, giacché ̶ dice – lo porta a concepire l’analisi della traslazione solo in termini di consenso ottenuto dalla parte sana dell’Io, che giudica dalla realtà e che può allontanare l’illusione. L’idea di Lacan è che questo modo di porre la questione mette fuori gioco un altro piano che è quello della verità, una verità che si fonda solo sulla parola, anche quando la parola è menzognera. La dimensione della verità rimane assente nella lettura di Szasz proprio perché il suo riferimento è alla realtà, coerentemente con la prospettiva logico-positivista che la orienta. Se Lacan prende però Szasz come interlocutore in questa sua discussione sulla traslazione, è perché ̶ dice ̶ Szasz ha tuttavia colto qualcosa. Accentuando la differenza tra piano simbolico e piano della realtà, e non volendo mettere fuori gioco quel che non è riducibile al simbolico nella relazione di traslazione, Szasz accentua un aspetto che lo stesso Lacan ̶ in modo evidentemente diverso ̶ mette in luce quando rifiuta di ridurre la traslazione semplicemente alla ripetizione ̶ e il seminario XI è quello in cui questa idea trova espressione: è nella quinta lezione a p.54. Parlando della ripetizione Lacan suggerisce la necessità di distinguere tra i due concetti che nella teoria analitica vengono abitualmente assimilati. Dice infatti: “La relazione con il reale di cui si tratta nella traslazione è stata espressa da Freud dicendo che nulla può essere appreso in effigie, in absentia ̶ e tuttavia la traslazione non ci è data proprio come in effigie, in relazione all’assenza? Possiamo riuscire a dipanare l’ambiguità della realtà in causa nella traslazione solo a partire dalla funzione del reale nella ripetizione.” Direi che qui vediamo subito il punto di contatto che lo porta a interrogare il testo di Szasz, e la differenza che lo separa da lui. Szasz vede lucidamente che la traslazione non è completamente riducibile al simbolico, che non è la semplice rappresentazione di figure dal passato del cui ruolo lo psicoanalista è investito. Nella relazione tra Breuer e Anna O. si sprigiona una potenza erotica pienamente attuale, analoga a qualsiasi esplosione di passione amorosa, come tra Abelardo ed Eloisa, come tra Giulietta e Romeo, come tra Paolo e Francesca. È grazie all’artificio del dispositivo analitico che dirottiamo questa potenza in diversa direzione, e che l’analista si scansa dall’implicazione passionale che l’esperienza fa sorgere. Per Szasz però, tutto quel che non è simbolico è semplicemente la pienezza della realtà fattuale. Vediamo invece cosa mette in gioco Lacan: il reale a cui ci porta la ripetizione, quello traumatico, quello non riconducibile ai plena – per dirla con Husserl ̶ perché è un reale segnato proprio dall’assenza, dalla mancanza, dall’incontro mancato. Mettendo in luce il carattere non semplicemente di parvenza della traslazione, non è la ricaduta nella realtà quel che rischiamo, ma è la messa in gioco del reale traumatico con tutte le sue conseguenze. Per questo, come premessa ad ogni analisi, dovremmo mettere l’avvertenza: maneggiare con cautela. Lungi dall’essere una mera traversata simbolica o una semplice esperienza conoscitiva, l’analisi tocca il punto di fondo da cui scaturiscono tutti i drammi della vita umana. È qualcosa di ben diverso ̶ come ha ben visto Szas ̶ dal maneggiare le tavolette di marmo dei geroglifici egizi. Chiaramente questa valorizzazione dell’aspetto reale della traslazione problematizza la posizione dell’analista chiamandolo in causa non solo per la sua valenza di sostituzione, ma per la sua presenza reale. “Presenza reale” è infatti il titolo scelto da Miller per questa lezione dedicata alla traslazione. È un’espressione che ha innanzitutto un valore polemico e politico. Siamo nell’anno della scomunica, e tra le critiche rivolte a Lacan dall’IPA c’è quella di svolgere i propri seminari facendovi partecipare i suoi analizzanti, perché questo avrebbe creato interferenze nella traslazione. Lacan replica che lungi dal ricusare quest’incidenza, la considera invece radicale e costitutiva della scoperta di Freud. Evoca a questo proposito la funzione della causa sia nel senso di causa da sostenere ̶ cioè di promuovere la causa dell’inconscio ̶ sia nel senso che assume la causa quando è nell’inconscio, cioè quello di causa persa. È chiaro qui il riferimento all’oggetto perduto, e all’idea che lo psicoanalista deve occupare il posto di quest’oggetto per sostenere la causa psicoanalitica. A questo proposito, affermando che gli effetti ̶ nel nostro campo ̶ si producono proprio in assenza della causa, Lacan presenta la definizione della causa inconscia, distinguendo tra ouk on, cioè l’ente logicamente negato, il non-ente, e il me on, l’ente imperativamente negato, l’ente sul quale cade un divieto che lo fa esistere malgrado non avvenuto, cioè non sia venuto all’essere. È un impossibile su cui si fonda la certezza. C’è però anche un’altra valenza politica nell’espressione “presenza dell’analista”, perché esprime un’idea che va in controtendenza rispetto all’utilizzo della controtraslazione che comincia a venir praticato in quegli anni nell’IPA. In un famoso articolo del 1949 Paula Heimann aveva valorizzato la controtraslazione come strumento dell’interpretazione, e man mano l’utilizzo della controtraslazione è cresciuto fino all’attuale trionfo nell’IPA. Negli anni intorno a quelli del Seminario XI le premesse di questo sviluppo erano state colte da Lacan, in seno alla psicoanalisi francese, nei lavori di Serge Lebovici, che aveva posto attenzione a quel che chiamava “l’essere dello psicoanalista”, facendo della psicoanalisi una relazione a due dove lo psicoanalista si caratterizza per la sua presenza nel duo e nell’hic et nunc, al di là della funzione classica di incarnare i personaggi della storia del soggetto nel macchinario dell’inconscio. Anche per Lebovici quindi, pur se in modo meno incisivo che in Szasz, c’è un tentativo di non ridurre lo psicoanalista alla sua posizione simbolica, ma anche qui con l’effetto di farlo ricadere nella realtà. Lacan è quindi attento a queste mutazioni nel pensiero psicoanalitico a lui contemporaneo. Ne coglie il valore, ma in modo critico, e le trasforma a partire dalla sua prospettiva di lavoro. La sua idea è che il concetto di inconscio non è separabile dalla presenza dello psicoanalista. È quel che esprime incisivamente in Posizione dell’inconscio a p.834: “Gli psicoanalisti fanno parte del concetto dell’inconscio, perché a essi l’inconscio si rivolge” ̶ e più avanti: “Non possiamo non includere il nostro discorso sull’inconscio nelle tesi stesse che esso enuncia: la presenza dell’inconscio situandosi nel luogo dell’Altro, in ogni discorso è da cercare nella sua enunciazione.” Vediamo insomma qui delinearsi le conseguenze di quel che è stato il piano iniziale, nelle prime lezioni del seminario sul traslazione, che supera il tema dell’intersoggettività per definire il traslazione attraverso la dissimmetria soggettiva. La dissimmetria ha da una parte quel che Lacan dice di aver promosso a partire dal rapporto di Roma, facendo dell’inconscio “la somma degli effetti di parola su un soggetto”, e dall’altra parte c’è la presenza dell’analista intesa come “caput mortuum della scoperta dell’inconscio”. Il caput mortuum è il residuo nell’operazione alchemica, quindi un resto. La relazione di traslazione nell’esperienza psicoanalitica vede dunque da una parte un soggetto nella sua relazione con l’inconscio, dall’altra il resto dell’operazione di cui lo psicoanalista deve occupare il posto. Non abbiamo più due soggetti in posizione duale, dove lo psicoanalista occupa il posto di maître de verité. Quel che viene in luce nella nuova concezione della traslazione è piuttosto l’opacità del trauma, ciò che resiste alla possibilità di dare senso, e che costituisce quindi un limite alla rimemorazione. Ciò che non si rimemora si ripete in atto, avverte Freud, e vediamo quindi qui, in questa identificazione del posto dello psicoanalista con l’opacità del trauma, la prefigurazione di quel che Lacan elaborerà tre anni più tardi con l’atto psicoanalitico. Si tratta esattamente del contrario della tendenza presa nell’IPA con la controtraslazione, dove vediamo casi clinici in cui è quasi lo psicoanalista a lasciarsi andare al gioco delle associazioni libere, dove è lo psicoanalista a esplorare il proprio inconscio attraverso quello del paziente. L’atto psicoanalitico implica invece che lo psicoanalista metta fuori gioco il proprio inconscio e le risonanze che può portare ̶ e quando vediamo che nella conduzione della cura ci sono eccessive interferenze dell’inconscio dallo psicoanalista, consideriamo che sia un problema da affrontare in controllo. L’atto e l’inconscio sono in antitesi, e se lo psicoanalista si coordina correttamente all’atto psicoanalitico è perché mette fuori gioco il proprio inconscio. Questo non vuol dire che abbia una neutralità che lo pone all’esterno, come osservatore di quel che accade nei processi inconsci del paziente. Presenza dell’analista significa esattamente il contrario, e negli ultimi anni, nelle esposizioni cliniche nel Campo freudiano abbiamo valorizzato precisamente questo aspetto: il modo in cui lo psicoanalista appare nel quadro che si delinea nel caso clinico. Un po’ come ne Las meninas di Velasquez che mostra il pittore nel quadro stesso che egli sta dipingendo. Abbiamo assistito a sessioni di esposizioni di casi dove gli analisti erano invitati a evidenziare i tratti delle proprie analisi che erano loro stati utili nel trattamento del caso che stavano esponendo. La presentazione del caso clinico non è infatti l’accumulo di dati oggettivi e di detti del paziente, ma è piuttosto una costruzione che mostra la mano dello psicoanalista, e lo stesso caso presentato in due tranche con psicoanalisti diversi risulta diverso, anche se ripercorre gli stessi ricordi e le tappe della stessa storia. Direi che questo mostra la straordinaria attualità di questo seminario tenuto quaranta anni fa, facendo apparire come l’orientamento di Lacan stia ancora guidando la nostra pratica oggi, e come i suoi seminari, anche i più antichi, siano una miniera che non abbiamo ancora finito di esplorare.
Conferenza tenuta a Malaga il 21 gennaio 2017. L'articolo è tratto dal blog a cura del Dott. Focchi.